IL GAROFANO ROSSO
Di Vittorini, protagonista della cultura italiana del ‘900 per la sua incessante opera di organizzatore culturale, scopritore di talenti e romanziere (Piccola Borghesia, Il garofano rosso, Conversazione in Sicilia, Uomini e no, Le donne di Messina, l’incompiuto Città del Mondo) s’è scritto moltissimo, perché valga la pena insistervi ancora (1). Interessa piuttosto attirare l’attenzione su altro. L’occasione, anzitutto, in cui nasce Il garofano rosso e i padri "spirituali" che presiedono all’attività creativa. Quasimodo, Montale, Ferrata sono i legami più saldi, oltre quello allacciato con Romano Bilenchi, che attraggono Vittorini nell’orbita della rivista "Solaria", "città ideale che noi inventiamo; sole e aria" (2). La sua luminosità e la sua distanza contrastano gli anni oscuri del fascismo nel ribadire che l’arte ha a che fare con la vita e con gli uomini, non con l’ideologia. I solariani non abdicano, però, al reale e alla verità, ma sono alla ricerca di una "speciale" verità, di un "altrimenti reale". In chiave solariana Vittorini legge Stendhal, ponendolo in cima alla schiera dei maestri della letteratura nuova ("è accanto a France,..sopra i nostri Gide, Proust, Svevo, Cocteau"), ed elegge il protagonista de Il Rosso e Nero, Julien Sorel, a "padre del nostro secolo" (3). Altrettanto moderno è Curzio Malaparte, che ha opposto all’aridità della scienza o del documento storico la fantasia e l’invenzione romanzesca, guardando alla storia da poeta, come un voyageur di tipo stendhaliano (4). L’idea che la storia rimarrebbe lettera morta e il tempo inghiottirebbe ogni cosa, se non ci fossero i letterati e gli artisti, sarà per Vittorini un chiodo fisso. Sulla scienza e la politica trionfano il romanzo e la poesia. Alle leggi del romanzo Vittorini vede soggetta la poesia di Montale, poesia della "durata", "di tono e di tempo" (5). In polemica con il luogo comune che ha fatto degli Ossi, come afferma Gargiulo, "uno dei documenti più sinceri e intensi del nostro disagio spirituale; segno di decadenza etica, ma piena di maturità artistica" (6), Vittorini, come molti solariani, vi legge, invece, lo sforzo di catturare il segno che accende di speranza, che illumina l’oggetto che trattiene la bontà di un istante o il particolare che nel deserto del nostro secolo ci ridà fiducia nella felicità. Per Vittorini la sorda pena montaliana non è documento o sintomo di una crisi storica. "Il male di vivere" è il simbolo della condizione umana, dell’Adamo, cui si può sfuggire solo abbandonandosi alla bontà istantanea delle cose del mondo o rimembrando l’infanzia. Gli Ossi di seppia sono poesia, perché la negatività è solo lo stato iniziale d’un percorso che s’affida alla rinascita del miracolo (7). Dalla contrizione erboristico-vegetale di Montale, il ramo storto e secco (8), sboccia, in linea evolutiva, dunque, tra il giallo dei limoni e di un croco, il rosso di un fiore, Il garofano rosso, appunto. Il sogno covato a lungo di un grande affresco corale della storia recente con vicende e personaggi, sembrava dover trovare realizzazione ne Il Garofano rosso, un romanzo dalla struttura composita. Non più il racconto di una sola voce, ma una polifonia che, in una trama narrativa interrotta da brevi dialoghi, lettere, brani diaristici proiettati all’indietro, negli anni ‘20, mescolasse fra loro due tempi, il fascismo degli anni ’30 e quello delle origini, in mezzo, a spartiacque, il delitto Matteotti. L’inizio fu esaltante, ma già nel ’34 cominciava a diventare un peso per l’autore, preso da traduzioni e altri progetti narrativi. L’ideazione creativa e la pubblicazione a puntate sulla rivista "Solaria" andarono avanti a singhiozzo sino alla sesta, la "criminale", quando il censore fiorentino impose il sequestro della rivista che in quel numero accoglieva, oltre il Garofano di Vittorini, il racconto Le figlie del generale di Terracini, opere"contrarie alla morale e al buon gusto…per espressioni licenziose e per il loro contenuto in generale". Nemmeno la revisione a cui Vittorini sottopose il testo tra il ’35 e il ’38, attenuando con garbo stilnovistico i passi più audaci (L’Amante di Lady Chatterley era allora un tema del giorno) (9), servì ad aggirare la censura romana. Il libro rimarrà per dieci anni inedito negli archivi mondadoriani, sino alla I edizione in volume nel ’48. Vittorini vi premise una lunga prefazione nella quale, insieme a un consuntivo critico della propria produzione sino al ’47, spiegava le ragioni che lo inducevano a pubblicare Il Garofano nonostante non riconoscesse più nel romanzo un suo libro, anzi non gli riconoscesse altro valore che quello storico – documentario. Il romanzo è un tipico esempio di Bildungsroman, con l’immagine di una giovinezza, la storia di un’amicizia tra adolescenti, la scoperta della donna e del sesso, temi cari alla tradizione narrativa di quegli anni, raccontati da un autore venticinquenne cui non erano ignoti i grandi modelli dell’educazione sentimentale europea, a cominciare dal Tonio Kröger di Thomas Mann, né i testi più recenti di Le Grand Meaulnes di Alain Fournier e Le Diable au corps Di Radiguet. Ma il tema era assai diffuso anche in Italia: era al centro dell’opera di Bilenchi, di Agostino e di altri racconti di Moravia, ritornerà in Erica e i suoi fratelli dello stesso Vittorini; si ritrova nell’Alvaro di L’età breve, in molti romanzi di Quarantotti Gambini, nel Landolfi di La pietra lunare, nel Pratolini di Quartiere e Cronaca familiare, prolungandosi sino al Calvino de Il sentiero dei nidi di ragno e ai romanzi della Morante. Ambientato a Siracusa, città "della montagna rosa", il romanzo intreccia, sullo sfondo di inquietudini esistenziali e generazionali (" eravamo cresciuti credendoci migliori di babbo e mamma, con un acuto senso di generazione nuova"), i furori politici, eversivi e antiborghesi, di due amici, Alessio Mainardi e Tarquinio Masseo, con l’amore, anch’ esso duplicato in due diversi volti, Giovanna, "una signorina della seconda" che esce "da una ventata di voci.. vestita di verde e di azzurro sugli alti tacchi", e una prostituta e spacciatrice di droga, "assorta, assonnata", "al di là degli altri", "vestita di un abito rosso", con "nefande scarpe rosse", dal nome "da mille e una notte", Zobeide. Corre come leit motiv un oggetto fortemente carico di valenze allusive, un garofano rosso. Il fiore rosso, "quasi un papavero", generoso dono, insieme ad un bacio, di Giovanna ad Alessio, conteso da Rana, rivale di Alessio nell’amore per la liceale, diviene l’emblema di una setta che vuole sottrarre l’ambito Graal, "il garofano dei garofani", alle mani nemiche di Zobeide, a cui Alessio, a sua volta, ha fatto dono dopo la scoperta dell’ "intenso" ("il garofano..sembrava il cadavere d’una bestiola nelle sue mani così vive"), per ritornare nel finale come velato strumento di agnizione, tutto giocato sulla potenzialità erotica della metafora floreale. Mentre Zobeide, infatti, si dissolve nel nulla, e con essa il garofano di Alessio, Tarquinio fornisce ad Alessio la certezza che Giovanna l’ha tradito mostrandogli un fazzoletto "macchiato di sangue non recente", prova che lui ne ha colto il fiore( "Legò dentro al fazzoletto una pietra e lasciò cadere la miniscola cosa rossa nell’acqua. Allora io credetti di capire e mi portai una mano alla bocca. Ma Tarquinio mi condusse via sottobraccio. "Andiamo" diceva. "non devi dispiacerti se sono così con Giovanna. Dopotutto tu l’avevi solo baciata. Non hai avuto quell’altra, tu?"). La "figura" vivente del rosso fiore, oggetto vero e insieme evento simbolico, agisce con forza, dunque, alla pari di un personaggio aggiunto. Fin dal suo apparire nel titolo sprigiona come topos letterario una vasta gamma di sovrasensi, un viluppo di possibilità narrative: da quella epica (Omero), a quella erotica (i trobatori, Ariosto, Tasso, Spencer), a quella che ne coglie la rapida fioritura dei "verdi anni" e la precarietà umana in controtempo con l’eternità ripetitiva del ciclo naturale o, al contrario, la rapina vorticosa del tempo e della storia (Saffo, Virgilio, Leopardi), all’ossimorica unione di amore e morte ( i poeti siculo-stilnovistici, Virgilio, Leopardi, il mito, in tutte le sue varianti letterarie, latine e greche, di Narciso e Proserpina (10)). All’interno del romanzo, poi, istituisce una stretta corrispondenza fra mondo interiore e mondo esterno, fra la determinazione dei tempi (il delitto Matteotti del tempo della Storia e i sei mesi della durata del tempo del racconto), dei luoghi (Siracusa, la città della "montagna rosa"), di spazi ( la città dalle "ciminiere verniciate di nero", la campagna "dall’odore di pioggia") e l’indeterminazione della trasfigurazione mitica ("tutto cambiava, tutto era andato lontano e io mi slanciavo a raggiungerlo quel "lontano", a diventare lontano anch’io") scandita da attese ("l’attesa di Zobeide – scrive Tarquinio ad Alessio – diventa sino alla superficie quello che è nel fondo, l’attesa di una urì"), epifanie ("capitai quasi addosso a una donna che usciva…. così bella"), immaginazioni e visioni oniriche, ricordi di infanzia, tutti marcati, questi ultimi dal colore rosso (11). Anche il linguaggio dei colori con cui parla il romanzo - sebbene l’autore, come afferma nella prefazione, accordi la sua preferenza a un linguaggio musicale, da melodramma - si carica di segrete significazioni allegoriche e simboliche; gli aggettivi, da semaforici, diventano emblemi cromatici, con la stabile contrapposizione, sulla tavolozza di grigi, azzurri, verdi, ruggine e bianco, tra il nero dei divieti e della morale borghese ("le mani nere di pelo" del padre, soprannominato "La Morale", che ha tradito il suo passato socialista nell’innalzarsi a padrone e "alzata" la moglie "su un altare oscuro.. le immolava il mondo e ogni giorno la spegneva con le sue mani pelose all’amore degli altri"), e il rosso del vitalismo mitico, ancestrale e primordiale. C’è di più. Il rosso completa l’opera di trasfigurazione simbolica in atto nel romanzo, guidandoci dai rossi abiti delle due donne di Alessio, Giovanna e Zobeide, alla veste del sanguigno colore, "nobilissimo, umile e onesto", che prelude all’apparizione di Beatrice, dalla prima all’ultima visione della Vita Nova. Con la "grammatica" di quel romanzo di formazione sospeso tra cronaca ed emblema, campione segnatamente normativo, il Garofano rosso stabilisce paralleli espliciti (12). Notiamo in comune il tema dell’incontro, all’inizio tacito e puramente visivo anche nel romanzo ("Ma appena si voltò il mio sguardo entrò nel suo, sentii di volerle bene ancora di più"), con una concreta potenza di penetrazione fisica dello sguardo degna del migliore impiego cavalcantiano. Segue il topos del saluto ("Le scrissi anche; ma lei non mi rispose; solo perché in quella mia unica lettera l’avevo chiamata Diana, spesso mi faceva misteriosamente dire da qualche ragazza della mia classe che Diana mi salutava") a cui è congiunta un ulteriore coppia retorica, il nome-schermo e il motivo dell’interpretatio nominis da estendere sia al senhal, dal momento che il nome mitologico allude ad una giovinetta schiva del sesso, e al nome proprio, Giovanna, "colei che anticipa la venuta", nome che Dante nella Vita Nova (XIV) associa "a quello di Giovanni lo quale precedette la verace luce". Anche la scena del gabbo, che imprime alla poetica e al racconto dantesco un nuovo imprevedibile corso, è segretamente attiva tra le maglie del colloquio tra Alessio e "la levatrice", (di nuovo la duplicità del nome: colei che toglie e colei che porta alla vita), "la ragazzona che accompagnava Giovanna", la quale non comparirà che alla fine del romanzo come presenza fugace e ormai superata : "Insomma", proseguì, molto calma, la "levatrice"…Lei capisce che non può esserci nulla di serio fra la mia compagna e lei….Insomma la mia compagna è una donna e lei Mainardi, scusi se glielo dico, lei è un ragazzo". Un’ analoga valenza di unione e superamento, modellata sul rapporto Dante – Cavalcanti, investe la coppia Alessio – Tarquinio. Come Dante attua la sua poetica nell’attraversamento e pieno superamento dell’angoscia cavalcantiana, così Alessio, nel finale, sull’onda dell’ascetismo rivoluzionario di un anonimo ragazzino "magro e con le gote incavate" che proclama l’autenticità dei valori e dell’amore all’interno della società borghese, s’apre verso altre soluzioni, altri esiti di ideologia ("Ha ragione il piccolo zoppo. Ci vuole qualcosa che ci obblighi ad esser migliori"), mentre Tarquinio ripara verso approdi borghesi ("Sai, una volta lì, non c’è differenza, non ci sono dei borghesi; si è grandi e basta"). Alla fine del romanzo di Vittorini, come nella Vita Nova, tutto è andato mutando di segno e di significato, con un evidente scarto, però. L’itinerario di formazione di Alessio s’arresta all’impasse dell’autore, convinto che proprio l’amore autentico ("l’intenso") e la pratica sessuale generino lo straniato prodotto della prostituzione borghese. Ricostruire l’ideale romantico che vorrebbe sesso e amore come elementi complementari e inscindibili nella stessa persona, significherebbe ignorare come la moderna figura della prostituta abbia origine proprio dalla necessità di assicurare uno spazio ideale ("l’azzurro) in una società che ha reificato e mercificato le relazioni tra i sessi nella prassi matrimoniale.
(1) Della vasta bibliografia critica si segnalano tra gli altri: F. Fortini, "Un garofano tra due poetiche", in "Fiera Letterararia", 4 luglio 1948; G. Pampaloni, "Rileggendo il garofano rosso di Elio Vittorini", in "Belfagor", 2 marzo 1949; A. Panicali, Elio Vittorini, Mursia, Milano, 1994; M. Corti, Prefazione alle Opere narrative I, pp. XLIX-LV; R. Aymone, La Manon a cavallo: un’analisi di Vittorini, Guida, Napoli, 1975, pp.59 e sgg.; I.Calvino, "Vittorini: tra progettazione e cultura", in Una pietra sopra, Mondatori, Milano, 1995, pp. 155 e sgg. (2) È il ricordo di Bonaventura Tecchi, riportato in "Risorgimento liberale" del 1946 (3) "Oggi gli uomini moderni sono tutti dei Sorel. Chi di noi non sa riconoscersi nei panni di Julien?....Sorel non è figlio del secolo; piuttosto, chissà, noi potremmo vedere in lui il padre del nostro secolo". E. Vittorini, "Vita di Madam de Rénal", in "La Stampa", 26 ottobre 1929 (4) "E non è lui, in un certo senso, lo Stendhal italiano..?". E. Vittorini, Recensione a Intelligenza di Lenin,di C. Malaparte, "Solaria", VI, (1931), 2, pp.56-70 (5) E. Vittorini, "Montale", in il "Bargello",1931,37,p.3 (6) A.Gargiulo, Introduzione a Ossi di seppia, Lanciano Barabba, 1931, p.2 (7) "Si grida contro l’aridità della nostra epoca, si strepita, si deplora, ma poi i poeti sorgono come per incanto e non si sa più se le dita della mano bastano a contarli. Rosario, Ungaretti, Montale, Saba, Malaparte, Agnolotti, Pavolini.." E. Vittorini, "Nuovo numero fra i poeti", in il "Bargello", 1935, 35 (8) "Non domandarci la formula che mondi possa aprirti/ sì qualche storta sillaba e secca come un ramo", E. Montale, "Non chiederci la parola", Ossi di seppia, Milano, Mondatori, 1978 (9) Un esempio per tutti: Giovanna "una signorina della seconda" verde- azzurra nel suo abito primaverile, nella stesura solariana è oggetto di un desiderio fisico e sensuale più accentuato " Mi piaceva e l’amavo perché era fatta di "donna", pensai, così diversa da tutte le scolare della terra, e perché andava al gabinetto anche, oh sì, e poi si tirava su le mutande, e perché aveva gli occhi grigi nel viso un po’ scuro, e vestiva quell’abito azzurro e rosso sulla sua carne slanciata, ed era alta." In "Solaria",1933, 2-3 (I puntata), p. 6 (10) "Il mito che vede nascere il fiore [il narciso] - nell’omerico Inno a Demetra ,v. 8, il narciso "è quella trappola che fece crescere la terra per la giovane fanciulla [Persefone] simile a un fiore appena schiuso" - drammatizza una tappa decisiva della vita femminile, il distacco della figlia dalla madre. Il matrimonio è messo in scena come una rottura brutale, vissuto nello stupore, accompagnato da un cambio di identità sottolineato dal cambio del nome, e come passaggio in un altro mondo dove la vita coniugale si svolge nelle tenebre e in prossimità dei morti. Il mito che fa morire Narciso mette in scena l’errore di un giovane che ignora l’indispensabile svolta attraverso gli altri che il maschio deve compiere per diventare se stesso, per diventare soggetto". F. Frontisi-Ducroux e J. P. Vernant, "Narciso e suoi doppi", in Ulisse e lo Specchio, Donzelli, Roma, 2003, p. 190 (11) A riprova una breve campionatura: i "mattoni rossi", "il rosso pane di pietra" della fornace di famiglia- scenario dell’infanzia di Alessio e i suoi fratelli - ,dalle cui torri "scaturiscono rosse le colonne di fumo"; la "polvere rossa" del piazzale; " i vecchi paesi della nostra infanzia, tutti di mattoni rossi con una chiesa al mezzo"; "la pompa verniciata di rosso in mezzo al cortile nelle campagne delle fornaci davanti ad una casa mai vista" di un incubo infantile; "I velluti rossi della prima classe" del trenino che da bambino prese con mamma e babbo; anche la faccia del guardiano della fornace è "la faccia antica" di un pellerossa, "di indiano d’America". (12) Sull’argomento si veda l’intervento di R. Aymone, La Manon a cavallo: un’analisi di Vittorini, Napoli, Guida, 1975. pp. 59-137