LA LETTERA SCARLATTA
(THE SCARLET LETTER)

di N. Hawthorne

incontro col prof. A. Portelli
Letteratura Anglo-Americana, Università di Roma "La Sapienza"

 

Liceo Ginnasio Stat. "Augusto" – Roma
Aula "Giulia Songini"

23 aprile 2008


E’ un testo sul quale mi ci arrovello da tempo, un classico che non finisce mai. La domanda che mi pongo sempre, per esempio, è: "che c’entra la dogana con tutta questa storia?". Poi l’ambiguità: un testo scritto a metà ‘800, che fa riferimento ai Padri Pellegrini del ‘600 e che ancora ci interroga nel 2000. Sono tre tempi che si rinviano l’uno con l’altro. Perché Hawthorne scrive un testo ambientato nel passato così profondo degli Stati Uniti? Lo fa per ragionare, per far ragionare, sulle origini degli USA, sulle radici puritane, su che cosa restava di queste nell’ambiente romantico. L’Autore lascia, in definitiva, un testo aperto perché i due protagonisti non si sposano: il testo non soddisfa, non consola. Benché scritto in pieno Romanticismo, l’amore non trionfa. Poi, questo libro che esamina due epoche diverse è un chiaro romanzo storico, ovvero una categoria difficile, un esercizio del tempo storico che, però, evidentemente ancora non possediamo.

Partiamo dal capitolo 1, dal secondo capoverso. Qui c’è una parola importante, una parola chiave: "happiness", felicità. E’ una parola fondamentale della Dichiarazione d’Indipendenza che afferma che tutti gli uomini sono creati uguali e che tutti hanno diritto alla ricerca della felicità. Verrebbe immediato pensare: "Che meraviglia l’America!", ma non è così. La Dichiarazione afferma che tutti hanno il diritto e quindi ci provano ad essere felici, ma nessuno ti mette nelle condizioni per esserlo. Pensandoci bene è meglio l’articolo 3 della Costituzione Italiana secondo cui "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua (...). E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona(...)". Insomma, per gli Americani la felicità è un progetto, comunque presente in un documento politico.

La Lettera Scarlatta è scritta in piano Romanticismo, ovvero nel Trascendentalismo, movimento in cui Hawthorne è immerso, anche e soprattutto per ragioni personali: infatti R.W. Emerson – che crede fermamente che l’unica forza attiva del mondo è la forza del singolo - è padrone di casa della famiglia Hawthorne, tanto per cominciare. Poi l’area in cui vive è proprio quella dove in pochi chilometri fermenta e si sviluppa tutto il movimento: H. Melville con Moby Dick e Louisa M. Alcott con Piccole Donne (Little Women), per esempio. Il Trascendentalismo promuove un rapporto effusionale Uomo- Dio – Natura in un rapporto ideale di trasparenza, secondo correnti cosmiche irradiate direttamente da Dio. Ma dov’è la morte e il crimine in tutto questo? Forse non sono forze vive ed attive nel mondo in cui viviamo? "E le balene?", insomma, sembra chiedere Melville.

Il film realizzato su La Lettera Scarlatta non c’entra molto col romanzo, diciamo, anzi, che sembra essere il suo contrario. Infatti il testo parte dalla prigione scura, presentandoci subito i temi principali dell’opera: la presenza del peccato e come gestire la colpa. Negli Stati Uniti ancora si interrogano su come sia stato possibile che 19 streghe nel ‘600 siano state condannate, mentre a Como – per esempio - nel ‘700 ne sono state condannate un numero maggiore... ma a noi, confessati cattolici, non ce ne importa più nulla. Per i protestanti, privi della confessione, la colpa pesa. La colpa ti impone la seguente domanda: "che cosa c’è in me che fa sì che io abbia potuto fare ciò che ho fatto?" Se non si comprende questo meccanismo, non si capisce perché Hester Prynne si "rimetta in regola" quando nessuno più ormai glielo chiede. Hawthorne è il marito di una femminista di metà ‘800 e votava contro chi voleva abolire la schiavitù. Del resto non c’è bisogno di essere d’accordo con un libro per restarne affascinati ed esserne arricchiti: forse questo romanzo ci piace proprio perché non soddisfa i nostri desideri e ci mette innanzi all’impossibilità assoluta di cancellare la colpa. Non dobbiamo sentirci, noi italiani, "migliori" di quegli americani: pensiamo, per esempio, che solo nel 1972 da noi viene abolito il reato di adulterio. In fondo gli americani della Lettera Scarlatta si limitano a mettere una "A" alla protagonista e se sapessero il nome del suo amante perseguiterebbero volentieri anche lui. Sono consapevoli che il mondo intero ha il senso del male e del peccato.

Hawthorne usa la tecnica della reticenza ed è ironico. Sembra dirci: "mica posso dire quello che... dico". Nell’ ‘800 in America non c’erano più documenti perché gli inglesi, ritirandosi definitivamente dalle ex-colonie, si portano via tutti gli archivi. Quello che trova Hawthorne nella dogana è, quindi, poca roba: solo un rotolo con una pezza rossa che, non appena l’Autore si poggia sul petto, sente scottare addosso. O forse sembra. Non lo dice, ed è solo la prima delle reticenze del romanzo. L’espediente del manoscritto ritrovato è molto romantico, ma Hawthorne dice qualcosa di più perché il manoscritto è garantito da un’oralità di gente che ha conosciuto direttamente la protagonista, Hester Prynne. Ma prima di quel manoscritto che cosa trova? Uno scheletro decapitato e non a caso Hawthorne scrive nel 1849, ovvero solo un anno dopo quel terribile e proverbiale "48": un momento di crisi totale e gli USA, che sono una repubblica già dal secolo precedente, si stanno interrogando su se stessi, cioè su un paese che si regola "senza testa", perché "repubblica", all’epoca, significava "confusione". E’ la repubblica, infatti, che decapita l’autorità e la decapitazione sono temi costanti del momento e del romanzo stesso. Ad una lettura più approfondita, infatti, ci accorgiamo che lo stesso Hawthorne viene "decapitato" perché il suo partito perde le elezioni e, di conseguenza, lui il posto di lavoro alla dogana. E’ il periodo in cui E.A. Poe, in un racconto comico, fa finire il protagonista con la testa nell’orologio e le lancette, nella loro "rivoluzione" sono sul punto di tagliargli la testa. Insomma, l’aver fatto una rivoluzione, nell’ ‘800, ancora ossessiona gli americani.

All’inizio del romanzo Hawthorne si trova a porsi il dubbio della sua autorità nel manoscritto: chi mi dice che è vero? Sembra chiedersi. E in questo modo getta una luce spiritualizzante sul quotidiano. Infatti essere immerso nella quotidianità di un ufficio lo avrebbe fatto, al massimo, scrivere bozzetti. Non a caso Tolstoj dice che lo straniamento è l’essenza della letteratura. Hawthorne si colloca immediatamente in un territorio neutrale dove il reale e il fantastico si mescolano e ogni volta che entra in scena la lettera "A" l’autorità narrativa va in crisi.

Alla fine del capitolo 3 si assiste al riconoscimento della dignità e della forza del silenzio di Hester: "Svanì dallo sguardo pubblico dentro il portone dalle borchie di ferro". Qualcuno sussurra che la lettera "A" gettava una luce "lured" nel passaggio. Noi ci chiediamo: "ma la getta, o no, ‘sta luce?" Il narratore ancora una volta è reticente e ancora una volta l’autorità narrativa va in pezzi.

Nel capitolo 12 Dimmesdale sale sul patibolo di notte e anche Hester con Pearl vi salgono. A quel punto si narra che si vede una luce in cielo e Dimmesdale afferma di avervi visto la lettera "A". Siamo in un’epoca storica in cui la presenza attiva di Dio era normale e i segni divini – si credeva - erano chiari messaggi per la collettività. Dimmesdale pensa che Dio stia scrivendo la sua colpa nel cielo. Dimmesdale è un uomo nuovo rispetto alla comunità puritana, è un individuo moderno, è capace di immaginare. Ma l’indomani il sagrestano dice che quella "A" vista nel cielo è perché quella notte era morto il governatore Winthrop, quindi un "angelo" era asceso in paradiso. E noi ancora a chiederci: "ma insomma, c’è stata, o no, ‘sta "A"? E che voleva dire?"

Più avanti leggiamo di una scena meravigliosa che si ambienta nel bosco, fuori il villaggio, quando Hester rivela a Dimmesdale la vera identità di Chillingworth e che quest’ultimo è perfettamente consapevole di chi sia Dimmesdale. Chillingworth, fingendosi amico di Dimmesdale, ha commesso un gravissimo peccato, ovvero ha violato le confessioni di un cuore che gli si è rivelato. Hester convince Dimmesdale ad andare via, è decisa, ancora una volta determinata (una figura femminista di donna), mentre lui è sempre esitante e tremante. Lei gli dice che non andrà via solo, ma non sta progettando una fuga d’amore: sta accettando di dannarsi l’anima pur di salvarlo. Infatti l’atto più egoistico è salvarsi la propria piccola anima, ma Hester è disposta a dannarsi per un altro. Quindi si leva la lettera "A" e la bambina, Pearl, (= incarnazione ambulante dell’anima) gliela rimette perché altrimenti non la riconosce più. Dimmesdale, allora, va a casa, ma non sollevato perché pronto ad iniziare una nuova vita perché qualcosa dentro di lui ora è cambiata: anche nel caso di Dimmesdale c’è stata una rivoluzione.

Frequentemente nel romanzo si allude a concetti di "rivoluzione", "dinastia", "regno", tutte metafore di sconvolgimenti politici e sociali del momento, del 1848. Dimmesdale, a questo punto del romanzo, non controlla più i suoi impulsi, dice cose oscene a ragazze che incontra, ecc., ed è terrorizzato da quello che succede perché la lingua, ormai, gli si muove da sola. Tuttavia non è felice, è sconvolto (non dimentichiamoci mai che questo romanzo non è una love story). Ora Hawthorne trova una soluzione che è una ambivalenza assoluta. Infatti il libro ha ben due conclusioni: (a) di tipo forse più banale => l’autore fa morire Dimmesdale. Ma come muore? Si apre la tonaca sul petto, alcuni dicono che c’e una lettera "A", altri no (e ancora noi lettori siamo lì a chiederci: "c’era?" "non c’era?"...); (b) Hester parte con la figlia e torna quando tutti si sono ormai dimenticati di lei e della sua vicenda e si rimette la lettera "A", segno di "able", "angel"... (e, per l’ennesima volta ci chiediamo, senza risposta: "insomma, segno di che cosa esattamente?") ed è sostenuta dalla stessa legge che la punì un tempo. Hester sfida la collettività e la "A" simbolo di punizione ora è divenuta un’opera d’arte e da sempre chi mette mano ad un’opera d’arte sta gettando una sfida. La lettera "A", come la balena di Melville, è un simbolo dai significati inafferrabili. In tutto il romanzo non si dice mai che Hester è un’ "adultera": lo sappiamo, ma non ci viene detto e i simboli assumono significato dal dialogo coi lettori.

Cosa significa, dunque, quella "A"? America, forse? Significa sempre una possibilità in più di significato e chi ne desse solo uno, uccide quel simbolo.

Hester si chiede se sia giusto quello che sta facendo e si immagina, alla fine del romanzo, come una novella Hutchinson e tutte le donne della comunità finalmente andranno da lei a chiedere consiglio: "quando il mondo sarà maturo, ci sarà un modo per rifondare i rapporti tra uomo e donna; quando il cielo lo vorrà", si legge al termine del testo. E’ la stessa affermazione che Hawthorne fa sulla schiavitù di cui riconosce l’ingiustizia, ma ne rinvia la soluzione. Non è Hester la profetessa destinata perché macchiata dal peccato e aggravata dalla vergogna. Fino all’ultimo Hawthorne pensa che la pena e la colpa siano qualcosa di indelebile.

Il finale è, dunque, complesso e carico di contraddizioni, come dicevamo all’inizio, insoddisfacente. Il senso di colpa e il peccato cambiano nei secoli, ma il riconoscimento della morte e del male è necessario per capire come funziona la dinamica della vita. E qui non è per niente vero che "amor omnia vincit" e il finale resta aperto.


          (dagli appunti della prof.ssa Isabella Marinaro)

 

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