Il tardo-simbolismo:

influssi sulla poesia italiana

tra Ottocento e Novecento

 

Il simbolismo tardo-ottocentesco, che annovera tra le sue voci poetiche M. Maeterlinck (1862 – 1949), F. Jammes (1868 – 1938), G. Rodenbach (1855 – 1898), A. Samain (1858 – 1900), J. Laforgue (1860 – 1887), Ch. Guérin (1873 – 1907), aveva espresso con raffinata sensibilità una atmosfera malinconica, un senso non consolabile di esclusione non tanto dalla realtà sociale del tempo, quanto dalla Vita, esprimendo questa lacerazione con una voce flebile, sfumata, bassa, sulle magistrali linee tracciate da Verlaine.

La loro lezione di poesia è captata presto dalle antenne dannunziane e la ritroveremo, senza tradimenti sostanziali rispetto all’eterno estetismo superomistico, nel Poema Paradisiaco (1893), dove i toni e il repertorio tematico di Verlaine e dei suoi epigoni vengono ampiamente esibiti dal vate stanco e bisognoso di innocenza e di morbidezze musicali. Al mondo dannunziano, però, ben altre esperienze occorrevano ed altri scenari si configuravano rispetto a quella incapacità di affrontare le situazioni dell’esistenza e di risolverle, tipica del poeta simbolista europeo.

Quasi necessario, invece, si dimostra l’influsso del tardo-simbolismo francese e fecondo di risultati originali per la poesia crepuscolare, una poesia d’avanguardia, senza essere una scuola e priva di manifesti, che, reagendo proprio al fenomeno dannunziano fa suo il gusto per le cose semplici, quotidiane, banali, abbassando intenzionalmente lo stile poetico e avvicinandolo quasi alla prosa, alla parola comune che trascina vel verso oggetti ei figure di una realtà dimessa e quasi inutile. L’operazione è, però, altamente consapevole perché i Crepuscolari S. Corazzini (1886 – 1907), G. Gozzano (1883 – 1916), M. Moretti (1885 – 1979), F. Maria Martini (1886 – 1931), G. Giannelli (1879 – 1914), C. Chiaves (1883 – 1919), C. Vallini (1883 – 1920), N. Oxilia (1889 – 1917) nella realtà più corriva trovano i simboli, non mistificati, della crisi dell’uomo, della sua solitudine sociale, dell’esclusione, di un disagio esistenziale ("il male di vivere" ante litteram) che rappresentano il ritratto vero e sofferto dell’uomo contemporaneo. E il tema stesso della malattia diviene emblema del non-senso della vita, dell’assoluto dominio nel Tempo che ci costringe a non comprendere il senso dell’esistere e ci conduce rapido al nulla. Non più illusioni o slanci di una presuntuosa voluntas, o richiami ideologici o politici possono consolare questi testimoni della "malattia mortale", che si limitano, quindi, a registrare vie deserte, piogge sui selciati, corsie d’ospedale, suoni di organetti di Barberia, piccole suppellettili (interi inventari ne ritroviamo nella poesia di G. Gozzano), giardini autunnali: sigle dell’incombere della morte che annienta ogni significato del vivere. Quelle povere piccole cose ed atmosfere (in un tempo così votato alle grandezze e alle raffinatezze) si accampano con fortissima carica polemica implicita, in un dettato lirico tenue, non gridato, prosastico, sostenuto solo da una musicalità malinconica, che rifiuta i temi alti e tradizionali, rimodulando il ritmo e liberando il verso.

Non è un caso che il primo impiego del verso libero nella poesia italiana sia rintracciabile in ambito crepuscolare, nella poesia di C. Covoni e in quella di S. Corazzini, di cui è esemplare a conferma Desolazione di un povero poeta sentimentale. Siamo nel 1906 quando esce Piccolo libro inutile di Corazzini e del 1907 è La Via del Rifugio di G. Gozzano, che con le sue risorse di ironia e di fossilizzazione del tempo operate attraverso la poesia fa vivere "le buone cose di cattivo gusto".

La novella in versi di Gozzano e il lamento in confessione di Corazzini sono la più significativa sconfessione dell’intera operazione dannunziana, opere di respiro europeo, originali e sperimentali.

 

 torna alla schermata "EUROPA"

 torna alla mappa concettuale